Un gruppo di 5 compagni/e stamattina si è recato alle 5.00 al checkpoint 300 di Betlemme, per vivere in prima persona la “normalità” dei palestinesi sotto occupazione.
In fila tra le sbarre lasciano la notte palestinese, per trovarsi alla luce del giorno israeliano, tra centinaia di lavoratori ai quali viene lesa quotidianamente la dignità in un ambiente carcerario freddo e intimidatorio, di fronte alla totale arroganza dei soldati israeliani.
Questo è il primo step di un lavoro di documentazione e testimonianza sulla condizione dei palestinesi oltre il muro.
La mattina continua con le attività del summer camp, che proseguono attraverso i differenti laboratori.
Il numero dei partecipanti è progressivamente aumentato, fino ad arrivare a circa 50, tra i 3 e i 13 anni. Questo è un chiaro segnale della buona partecipazione al campo e dell’interesse per le attività proposte.
I laboratori si svolgono anche al di fuori del centro Amal Al Mustakbal, con attività in strada che permettono la costruzione di relazioni con gli abitanti del campo profughi di Aida.
Sempre nel corso della mattinata, non sono mancati momenti di tensione: verso l’ora di pranzo, l’aria diventa irrespirabile a causa di gas lacrimogeni sparati nel campo.
Si è infatti verificata una delle tante incursioni dell’esercito israeliano all’interno del campo sparando lacrimogeni in strada, in pieno giorno e senza un reale motivo (solitamente le incursioni avvengono in piena notte e per arrestare qualche abitante).
Questa è l’ennesima testimonianza dell’arroganza dell’esercito di occupazione che non esita a utilizzare armi nocive, terrorizzando e mettendo in pericolo una popolazione che già vive in condizioni di estremo disagio e mancanza di diritti.
Nel pomeriggio si è svolta la visita ad una delle città simbolo maggiormente colpite dall’occupazione sionista: Khalil – Hebron.
Entrando nella parte vecchia, non si ha immediatamente la visione della realtà inquietante di questo centro, che conta la presenza di 5000 soldati a difesa di 500 coloni e una popolazione totale di 200.000 palestinesi, di cui molti espropriati delle proprie case e terreni.
All’interno del mercato, si può notare la vicinanza estrema di edifici occupati dall’esercito israeliano e dai coloni, protetti da filo spinato, reti e telecamere, circondati da torrette militari.
Una rete metallica protegge il mercato dai lanci di pietre, bottiglie, spazzatura di ogni sorta effettuati dalle case espropriate sovrastanti; parti antiche del suq sono state chiuse a protezione della colonia adiacente.
L’accesso alla moschea di Ibrahim, (luogo di culto per i musulmani e teatro in passato di un massacro compiuto da un colono, rimasto impunito), è reso ancor più difficile dai controlli militari e dall’occupazione del 65% dell’edificio trasformato in sinagoga.
Uscendo dalla moschea, si arriva a Shuhada Street, una via fantasma, dove rimangono solo due negozi aperti, palestinesi, che rischiano di essere cacciati perchè territorio ormai completamente occupato dai coloni.
Percorrendola, s’incontrano solo militari armati, qualche colono, e lo spettro di quello che una volta era un quartiere vivo e ricco di attività, ormai completamente abbandonato.
Questa è la colonia: un’inquietante insieme militarizzato di case, privato della sua storica identità, giustificato dalla pretesa di reinventare la storia.
La città di Hebron e la drammatica convivenza dei suoi abitanti è il più chiaro esempio della situazione di Apartheid che vive la popolazione palestinese in tutta la West Bank.
La storia non si riscrive, la vita non si arresta, l’occupazione non si giustifica, in nessuna sua forma.
Shebab del Summer Camp di Aida