Ripensare gli aiuti alla Palestina

Consapevolmente o meno, gli aiuti esterni agevolano l’occupazione israeliana, consentono a una dirigenza palestinese incapace di sopravvivere, e perturbano gran parte della società civile palestinese. La portata della dipendenza dagli aiuti comporta che l’Autorità Palestinese debba spendere un’energia considerevole mendicando l’elemosina dai governi arabi, dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. Di fronte a una grave carenza di cassa – che non è insolita – di recente l’Autorità Palestinese non è stata in grado di pagare gli stipendi sui quali si stima facciano affidamento un milione di burocrati e le loro famiglie.

Uno dei maggiori problemi connesso agli aiuti esterni è stato illustrato dalle percosse subite un mese fa da giovani pacifici manifestanti palestinesi ad opera delle forze di sicurezza. Coloro che protestavano hanno manifestato inizialmente contro la prevista visita a Ramallah dell’ex vice primo ministro israeliano, Shaul Mofaz, che ha contravvenuto al divieto di viaggiare in altri paesi in conseguenza delle accuse di crimini di guerra compiuti durante gli attacchi israeliani su città palestinesi nel 2002. Ma dopo che le forze di sicurezza li avevano aggrediti, i manifestanti hanno organizzato dimostrazioni contro la brutalità della polizia.

Le forze israeliane avevano annientato le forze di sicurezza palestinesi nel 2002, al culmine della seconda Intifada. Ma dal 2005, il sostegno tecnico e finanziario degli Stati Uniti e dell’Unione Europea non solo le ha ricostituite, ma ha pure promosso uno stretto coordinamento tra i servizi di sicurezza israeliani e palestinesi – un coordinamento solo leggermente increspato dalle prudenti denunce di funzionari palestinesi in merito a continue incursioni israeliane entro le poche aree che presumibilmente sono sotto il diretto controllo dell’AP (ad esempio l’Area A , un mero 18 % della West Bank). Non sorprende che i palestinesi critici dell’AP la definiscano “poliziotto di Israele.”

Molto è stato scritto sui problemi del coordinamento di sicurezza israelo-AP (ad esempio, Squaring the Circe e Our Man in Palesatine), ma i donatori tengono ancora gli occhi chiusi. All’inizio di questo mese – pochi giorni dopo le aggressioni – il presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso è stato scortato fieramente dall’AP a un collegio per “scienze di polizia” nella West Bank occupata. Avrebbe dovuto conservare un attimo di tempo del suo affollato programma per parlare con Mona (non è il suo vero nome), la quale mi ha detto, “Mi sono sentita umiliata quando ho visto i camion che trasportavano un’infuriata polizia dotata di manganelli che non ha esitato a picchiarci. E arrabbiata che l’AP stia sprecando la nostra energia collettiva invece di combattere il vero nemico.”

Invece, Barroso ha firmato un contratto di 25 milioni di dollari concernente otto stazioni di polizia e una prigione, con dei finanziamenti destinati al rafforzamento del controllo della società civile sul settore sicurezza. La questione su come la società civile possa esercitare proprio tale controllo è rimasta senza risposta.

Il sostegno ai servizi di sicurezza palestinesi è solo un problema di rapporti di politica estera tra donatore e beneficiario nei territori palestinesi occupati. Un’altra questione importante è il modo in cui gli aiuti dei donatori liberino Israele dai suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale di garantire il benessere della popolazione soggetta alla sua occupazione. Un episodio tragicomico è in grado di illustrare meglio come il vantaggio degli aiuti dei donatori all’AP vada a Israele. Lo scorso anno, quando i membri del Congresso degli Stati Uniti a favore di Israele si precipitarono a tagliare gli aiuti all’AP come punizione per aver cercato di ottenere la piena adesione alle Nazioni Unite, il governo israeliano intervenne con forza in difesa di tali aiuti. E all’inizio di questo mese il governo israeliano ha dato all’AP, a corto di denaro, un “anticipo” sui soldi della tasse che raccoglie per conto della stessa – un accordo che è solo un modo che rivela quanto i mal negoziati accordi di Oslo si sono dimostrati disastrosi per la sovranità palestinese.

Non solo i donatori finiscono per pagare per i bisogni fondamentali dei palestinesi, spesso però ai loro finanziamenti è consentito andare solo a progetti approvati dalle forze di occupazione israeliane, che promuovono i modo fattivo i progetti di colonizzazione di Israele. Ad esempio, le strade finanziate dall’USAID non alterano in alcun modo il sistema di Israele delle strade separate o dei lunghi tratti di terre rubate lungo il percorso. Tale “agevolazione”, in realtà, viola il diritto internazionale: il Parere Consultivo della Corte Internazionale di Giustizia in merito al muro di separazione di Israele , emesso il mese scorso di otto anni fa, ha dichiarato che Stati terzi non sono autorizzati a provvedere a illegalità.

Inoltre, Israele ha una lunga storia di distruzioni di progetti finanziati da donatori, più di recente nell’Area C della West Bank dove ha il pieno controllo della sicurezza, e che comporta l’evacuazione dei palestinesi. Sono stimate essere 62 le strutture finanziate dall’UE che sono state distrutte e altre 110 sono a rischio di demolizione. Alla fine, i ministri degli esteri dell’UE hanno fatto una critica insolitamente dura sull’operato di Israele, affermando di proposito che non solo sarebbe stato loro impossibile continuare a investire nell’Area C, ma che si aspettavano che “tali investimenti fossero protetti per un uso futuro”. Ma le proteste dell’Unione Europea risuonano vuote se si considera che ha appena rafforzato la cooperazione economica UE-Israele.

Poi c’è il denaro dei donatori versato per “rafforzare le istituzioni” – senza aggiungere in realtà molto a quanto è stato fatto durante l’era dell’ultimo Yasser Arafat, secondo un’analisi autorevole. Ciò deriva in parte dall’errata convinzione che sia possibile uno sviluppo sostenibile sotto una occupazione prolungata, anche se importanti agenzie umanitarie, come la Banca Mondiale, forniscono un rapporto dopo l’altro con i quali mettono in evidenza ostacoli insormontabili.

Il sistema degli aiuti ha avuto un impatto molto negativo anche sulla società civile palestinese. La resistenza non-violenta è stato il carattere distintivo della Prima Intifada alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90. Dal 1993 e quindi dagli Accordi di Oslo, le organizzazioni non governative, con alcune importanti eccezioni, hanno confezionato dei programmi su misura degli ordini del giorno dei donatori, piuttosto che finalizzati alla ricerca della libertà.

Ci sono state molte critiche palestinesi agli aiuti dei donatori e le loro voci si stanno facendo sempre più forti. La stessa gioventù che ha organizzato le manifestazioni di fine giugno primi di luglio – Palestinesi con Dignità – il 30 luglio ha rilasciato una dichiarazione con la quale inchioda l’UE per la sua ipocrisia, intimandole di invertire la rotta altrimenti avrebbe “contestato la sua presenza e i suoi interventi in Palestina”.

Una commedia satirica sugli aiuti dei donatori è stata prodotta di recente nella West Bank, con una richiesta chiara di maggiore responsabilità. Ma questa non è risultata imminente. Il Comitato di collegamento ad hoc, che trasferisce gli aiuti dell’UE e degli Stati Uniti all’AP, a quanto si dice non è stato capace di organizzare per l’Associazione Dalia, che ha sede in Ramallah, un incontro con i donatori per discutere le sue conclusioni su come l’aiuto rischia di violare i diritti umani dei palestinesi.

Evidentemente, una revisione urgente delle politiche di aiuto nei Territori Palestinesi Occupati è attesa da tempo. Nessuno sostiene che debbano essere interrotti tutti gli aiuti; i palestinesi ne hanno bisogno per sopravvivere sulla propria terra e realizzare diritti fondamentali quali l’istruzione, il lavoro e la salute. Tuttavia, in assenza di un quadro politico, gli aiuti alla Palestina stanno facendo molto più male che bene.

Perché i donatori non considerano i danni fatti dai loro aiuti? In parte, perché conviene ad alcuni di loro, in particolare agli Stati Uniti, per avere uno strumento per mantenere in linea l’AP. E in parte, perché non c’è ancora in Europa e nel Nord America una pressione sufficiente a contrastare le forti lobby di Israele e spingere i governi di questi paesi a difendere il diritto internazionale e a porre fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi. In assenza di tutto ciò, per i governi occidentali è molto più facile conservare lo status quo e salvare la coscienza grazie agli aiuti.

Ci sono modi per aiutare i palestinesi che dovrebbero essere presi seriamente in considerazione, rimanere sulla loro terra senza fare del male. Ma la linea di fondo è questa: ciò di cui i palestinesi hanno bisogno è la volontà politica europea e americana di fermare la colonizzazione israeliana e porre fine alla discriminazione. Senza di essa, questi si ritrovano ad affrontare un’ininterrotta serie di espropriazioni ed esclusioni, e nessun ammontare del contributo potrà essere d’aiuto.

Nadia Hijab
direttrice di Al-Shabaka: La rete politica palestinese

Fonte: http://mideast.foreignpolicy.com/posts/2012/08/03/rethinking_aid_to_palestine
Traduzione a cura di Mariano Mingarelli