Il 21 novembre si è consumata al Cairo la scena madre dell’ultimo teatro di guerra sionista: la firma dell’accordo di tregua tra Hamas e Israele, attraverso la “salvifica” mediazione di Hillary Clinton (segretario di Stato USA) e Mohamed Amr (ministro degli Esteri egiziano). I termini generali dell’accordo impongono il cessate il fuoco a qualsiasi tipo di attacco da parte sia israeliana che palestinese, la riapertura dei valichi di Gaza per la facilitazione della mobilità di cose e persone ed un allentamento delle restrizioni imposte agli abitanti della Striscia.
Se realmente l’obiettivo principale di Netanyahu con l’operazione “Pillar of Defense” era di minare alla base la capacità politica e militare di Hamas nella Striscia di Gaza, allora possiamo sostenere che abbia fallito, per due motivi: il Movimento Islamico sta sfruttando propagandisticamente l’accordo di tregua per porsi come il legittimo rappresentante della difesa a della resistenza palestinese, attraverso l’organismo dell’ANP (ed in questa luce andrebbe letta anche la volontà di Abu Mazen di presentarsi all’ONU come stato non-membro); dal punto di vista prettamente politico, al Cairo Hamas ha tacitamente stretto un accordo con i Fratelli Musulmani, alleati naturali dell’imperialismo occidentale nell’area del Mediterraneo.
La risoluzione apparente e momentanea del conflitto può essere vista come una sconfitta “sul campo” della seconda potenza militare al mondo (la resistenza palestinese ha continuato fino all’ultimo a rispondere agli attacchi israeliani); tuttavia si può sostenere senza dubbio che un rafforzamento politico di Hamas (e quindi dell’ANP), in prospettiva di diventare un partito politico sempre più moderato e con saldi interessi tra i Fratelli Musulmani e le petromonarchie del Golfo, non possa che giovare alla politica israeliana.
Oltretutto non bisogna dimenticare che nessuna tregua può cancellare ciò che realmente è stato “Pillar of Defense”: oltre 160 morti palestinesi, migliaia di feriti, interi quartieri rasi al suolo, più di 250 arresti negli ultimi giorni nella sola Cisgiordania.
Ed è in Cisgiordania che il conflitto con l’esercito israeliano non accenna a fermarsi: il sostegno ai fratelli gazawi si è presto fuso con le rivendicazioni sociali e politiche che avevano portato in piazza i palestinesi nell’ottobre scorso: fine dell’occupazione economica e militare israeliana, basta alle politiche collaborazioniste di Abu Mazen e dell’ANP, ricostituzione dell’OLP, costruzione dello Stato Palestinese. Tuttora nelle città palestinesi, nei villaggi, nei campi profughi sono in corso violenti scontri con l’esercito sionista che nonostante i morti, i feriti e gli arresti non riesce e domare la resistenza degli shebab.
Per questi motivi crediamo che l’occupazione non abbia alcuna tregua, e che rallegrarsi per la “fine della guerra” sia un atteggiamento puramente “umanitario” e non tattico né politico.
Gli avvenimenti di questa settimana di guerra, pur dietro la maschera dell’accordo del Cairo, li ritroveremo negli sviluppi futuri della guerra in Siria; l’entrata in scena di un nuovo attore (l’Egitto di Morsi), il rafforzamento di Hamas, le elezioni in Israele sono i tasselli che comporranno il puzzle di rinnovati equilibri geo-politici nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente.
Continueremo ogni giorno a mobilitarci per la Palestina, la sua autodeterminazione e la sua indipendenza, ed ogni giorno denunceremo tutte le guerre imperialiste, dalla Libia alla Siria a Gaza, strumento di affari e morte contro la libertà dei popoli.
Con la Palestina nel cuore,
Gruppo di Azione per la Palestina
Parma, 23 novembre 2012