Siria, crisi, guerra: a che punto è la notte?

«Oggi il compito è diverso, più vicino all’azione. Ci vuole più diffidenza per le dichiarazioni e le conferenze da parata. Ci vuole più energia nell’elaborazione di risposte e consigli precisi ai pubblicisti, ai propagandisti, agli agitatori, a tutti gli operai coscienti, affinché questi consigli non possano non essere compresi. Ci vuole più chiarezza e precisione nella raccolta delle forze per il lungo lavoro di attuazione pratica di questi consigli.»

Lenin, L’unificazione degli internazionalisti

Dopo la rimozione della Libia gheddafiana era in qualche modo scontato che ad entrare direttamente nel mirino della tendenza alla guerra fosse la Siria. Così è puntualmente avvenuto. A un primo sguardo sembra che, in fondo, la rimozione del regime nazionale siriano non sia altro che l’ennesimo tassello posto dall’imperialismo nelle sue mire di conquista e rimozione di tutti quegli stati e regimi poco proni ad allinearsi ai suoi diktat.  Un’operazione “normale” alla quale, da tempo, siamo stati abituati. Interventi militari di questo tipo, a partire dalla prima guerra del Golfo del ’91, sono diventati un’abitudine, una routine alla quale tutti sembrano essersi assuefatti. Chiamate, a seconda dei casi, operazioni di polizia internazionale o guerre umanitarie, gli interventi armati in giro per il pianeta non stupiscono più nessuno.

Gli stessi movimenti contro la guerra sembrano aver perso gran parte del loro mordente tanto che, di fronte a ogni nuova operazione, sono sempre meno le forze che decidono di scendere in piazza per protestare. Inoltre, come nel caso della Libia il consenso, tacito o dichiarato, a quel tipo di intervento è stato dato con non poco plauso da parte di quelle formazioni politiche e culturali che, in altri contesti, si erano mostrate per lo meno contrarie all’uso della forza; nei confronti della Siria il gioco tende a ripetersi e, se possibile, in maniera ancora più esplicativa. Buona parte del  cartello no war, oggi, sembra essersi tranquillamente allineato intorno all’ipotesi dell’intervento umanitario. In poche parole, almeno nelle nostre società, non sembra palesarsi una qualche forza, consistentemente rilevante, oppositiva all’intervento militare in Siria. Niente sembra intromettersi nei confronti della “campagna di Siria”. Ma non solo. Ciò che, in fondo, nel senso comune sedimentatosi in Occidente trapela è la sostanziale convinzione che la guerra sia qualcosa di distante, qualcosa che, concretamente, non ci riguarda. La guerra e le guerre sono qualcosa che hanno esclusivamente a che fare con l’altro e che non ci toccano più di tanto.  In maniera abbastanza paradossale, più la guerra tende a generalizzarsi, meno questa è assunta come nodo centrale della politica qui e ora.

Tutto ciò, in apparenza, può sembrare il frutto di una follia più o meno generalizzata ma, a uno sguardo un poco più attento, le cose si mostrano in ben altro modo. La sostanziale disattenzione nei confronti della guerra e del suo divenire ha origine in quel tratto prevalentemente morale che ha fatto da cornice ai movimenti oppositivi dei vari conflitti armati succedutisi negli ultimi anni. Da questi movimenti, la guerra, non è stata osservata, letta e criticata, attraverso il lessico proprio del politico bensì come qualcosa che aveva a che vedere unicamente con il piano dell’etica. Significativo il fatto che il concetto stesso di guerra, da gran parte dei suoi critici, fosse assunto in maniera assoluta e indistinta, senza cioè osservare la dimensione “concreta” e “particolare” dentro la quale, il conflitto, prendeva forma. Nel movimento no war, pertanto, ciò che finiva con l’assumere l’aspetto decisivo, più che la guerra e la sua forma concreta, era una critica tout court alla violenza e, conseguentemente, l’impossibilità di distinguere tra “guerra giusta” e “guerra ingiusta”.  Ciò che, in virtù di tale cornice teorica, finiva con l’essere bellamente ignorato era il dato oggettivo che fa da sfondo ai conflitti bellici contemporanei, ovvero la tendenza alla guerra propria del sistema imperialista. L’errore fatale del movimento no war, andando al sodo, era tipicamente teorico – analitico: aver affrontato il tema della guerra utilizzando schemi e categorie del tutto inappropriate. In ciò, del resto, sta il limite storicamente insormontabile delle opposizioni di natura morale, le quali non sono mai state in grado, andando al sodo, di intervenire dentro la guerra in maniera risolutiva. Ciò che obiettivamente “sfugge” alla critica morale è il dato oggettivo dentro cui la guerra prende forma.

Le guerre non sono il frutto dei “cattivi pensieri” di uomini afflitti da malvagità, bensì lo sbocco obiettivo di conflitti materiali storicamente determinati. Per questo, per comprendere la messa in forma della guerra contemporanea, è assolutamente necessario avere ben a mente lo scenario concreto entro cui la tendenza alla guerra si manifesta e i passaggi che, dentro tale tendenza, si manifestano e prendono forma. Del tutto privo di senso è affrontare la questione in maniera astorica ponendo sullo stesso piano ogni tipologia di conflitto. Nell’affrontare la “questione guerra” occorre sempre aver lucidamente a mente all’interno di quale formazione economica e sociale questa si manifesta, quali attori sono chiamati in causa, gli effetti che il conflitto è in grado di produrre sia tra i diversi blocchi statuali, sia tra questi e le entità politico – territoriali prese di mira e le ricadute che, complessivamente, tutto ciò comporta per le classi sociali subalterne. Dobbiamo, pertanto, definire il tipo di formazione economica e sociale dentro la quale siamo immessi. Pensiamo che, il contesto storico contemporaneo, non possa che essere definito altrimenti che imperialista. Pur con tutte le innegabili trasformazioni che lo distinguono dall’epoca imperialista analizzata da Lenin, è sensato sostenere che alcuni suoi tratti rimangono costanti. Su tutti la tendenza alla guerra che, per sua natura, l’imperialismo non può che continuamente reiterare. Ma non solo. L’altro lato immutabile dell’imperialismo è la produzione della crisi. Crisi e guerra si mostrano  oltre che costanti della fase imperialista poli indissolubili del medesimo  modello politico, economico e militare.

Si tratta, allora, di affrontare la questione tenendo costantemente a mente la relazione tra  crisi e guerra poiché, è proprio dentro la crisi che la tendenza alla guerra subisce trasformazioni e accelerazioni tali che la impongono come scenario principale della dimensione politica. Ciò è facilmente accertabile sulla base della più banale conoscenza storica. Il mondo ha conosciuto infiniti attentati a principi e duchi ma perché, da ciò, ne scaturisca un conflitto mondiale occorrono condizioni oggettive generali particolari. Occorre che il punto di frizione tra i vari blocchi imperialisti sia oggettivamente giunto al punto di non ritorno. Occorre che la generalizzazione della forma guerra sia già operante dentro gran parte delle contraddizioni del modo di produzione capitalista. Solo a quel punto, un semplice incidente di percorso, solitamente archiviato con borbottii diplomatici, più o meno fragorosi, è in grado di determinare la catastrofe. Solo questo è in grado di spiegare razionalmente gli effetti che il primo colpo di cannone del 1914 ha avuto sul mondo. Ciò che prende forma in Serbia trova la sua reale spiegazione nelle trasformazioni economiche e sociali interne al modo di produzione capitalista nel decennio precedente dove si consuma, per intero, il passaggio dalla fase “pacifica” ed espansionista del capitalismo alla sua dimensione militarista, imperialista e apertamente conflittuale. La competizione “pacifica” per il dominio del mercato mondiale si trasforma in conflitto armato. Sullo sfondo di ciò la crisi patita dai diversi blocchi imperialisti in seguito alla necessità vitale di reperire: a) fonti certe di materie prime, b) sbocchi protetti per le proprie merci, c) aree di investimenti finanziari particolarmente ghiotti, d) la possibilità di avere sotto mano una forza – lavoro come quella presente nei mondi coloniali in condizioni prossime alla servitù.

Dentro questo obiettivo scenario di crisi un banale “incidente nazionalistico”  si trasforma in tragedia. Da lì, senza che nessuno degli attori in gioco avesse minimamente presente quali forze fosse in procinto di scatenare, prende le mosse il Primo conflitto mondiale con ricadute tali che nessun uomo politico all’alba del fatidico 1914 era in grado di immaginare. Cinque anni di guerra che modificano, per intero, la cornice geopolitica internazionale: l’Europa devastata, la rottura rivoluzionaria in Russia e l’avvento del primo stato socialista insieme all’emergere degli USA come principale potenza imperialista. Effetti e conseguenze che nessuno era in grado anche solo di immaginare nel momento in cui, l’Impero austroungarico formula l’ignobile ultimatum alla modesta Serbia. Giorno dopo giorno gli attori, iniziali protagonisti del ’14, cominciano a uscire di scena mentre il proscenio storico – politico è conquistato dal pragmatismo statunitense e dal marxismo sovietico. La guerra, al suo termine, consegna un mondo del tutto irriconoscibile. L’Europa perde la sua centralità negli affari del mondo mentre, proprio dentro la guerra, i “popoli senza storia” iniziano il loro cammino politico.  Questo il  quadro che fuoriesce all’indomani del 1918. Nessuna delle potenze che quattro anni prima avevano dato fuoco alle polveri avrebbe, anche solo lontanamente, immaginato di innescare un processo dagli esiti simili. Ciò a dimostrazione di come, la borghesia imperialista e il suo personale politico, siano ben lontani dal maneggiare il senso delle dinamiche storiche. Essi non possono che agire dentro i passaggi obbligati nei quali la loro formazione economica e sociale li obbliga. Una critica che si limiti a focalizzare lo sguardo intorno all’agire di questo o quel personaggio politico invece di evidenziare come determinate scelte e decisioni siano soltanto il “semplice” frutto di fattori oggettivi propri del modo di produzione capitalista e della sua dimensione imperialista,  non solo si mostra del tutto velleitaria  ma contribuisce a coltivare tra le masse l’illusione che possa esistere un capitalismo pacifico in contrapposizione a un capitalismo prono al militarismo; che possa esistere un capitalismo in grado di governare e prevenire la crisi e un capitalismo incapace di assolvere a tale compito.  Tale illusione non nasce dal nulla, non è il semplice frutto di qualche mente annebbiata ma la concettualizzazione politica di una precisa posizione di classe. Le idee non provengono astrattamente dal cielo, non calano sulla terra in virtù di un intervento divino ma sono l’oggettivo riflesso di postazioni di classe.

Il florido giardino delle illusioni è sapientemente coltivato da quella fitta schiera di micro intellettuali piccolo-borghesi i quali, in virtù della loro postazione di classe, non sono in grado di rompere realmente e definitivamente con la borghesia imperialista e il suo sistema economico e sociale. Ma non si tratta solo di questo. Le illusioni che contribuiscono ampiamente a coltivare non sono un semplice abbaglio teorico – analitico ma assolvono a un obiettivo strategico: combattere e delegittimare il materialismo storico e dialettico e, con questo, l’arma propria del proletariato. Dietro alle illusioni piccolo-borghesi marciamo in pieno assetto di guerra l’insieme degli schieramenti controrivoluzionari, imperialisti e militaristi. Tutte quelle forze che, parlando di pace, preparano la guerra.  Per tale motivo la prepotente rimessa in circolo del materialismo storico e dialettico si pone come battaglia politica non secondaria per l’insieme del movimento comunista. Ristabilire l’egemonia “culturale” del marxismo e del leninismo dentro la classe è la premessa indispensabile alla costituzione di una soggettività politica in grado di guidare le masse dentro le svolte storiche del presente. La “certezza ideologica” non è un vezzo da nostalgia cominterniana ma una necessità strategica senza la quale, anche la migliore delle intenzioni, non può che finire a lastricare le vie dell’inferno. Non è pensabile, né tanto meno possibile, affrontare lo scenario della guerra imperialista senza una teoria rivoluzionaria in grado di essere per intero guida per l’azione.

Ma andiamo oltre e affrontiamo il problema tenendo a mente quanto l’esperienza storica a noi più vicina è in grado di fornirci. Al proposito diventa obbligatorio considerare lo scenario che, a partire dal ’29, ha iniziato, giorno dopo giorno, a prendere sempre più forma e consistenza.

Nel decennio precedente (1918 – 1928), è indubbio, le tensioni tra le forze imperialiste e tra queste e l’Unione Sovietica non erano certo state di poco conto tanto da, in più di un’occasione, prefigurare scenari tali da rendere il conflitto quasi obbligato. Eppure ciò non si è dato. La relativa stabilizzazione a cui il capitalismo sembrava essere approdato, dopo la crisi di “riequilibrio” dell’immediato dopo guerra, faceva sì che l’uso delle armi e della forza rimanessero sostanzialmente circoscritti mentre, a prevalere, era una diplomazia dai toni accesi, sempre al limite della rottura, ma continuamente catturata dentro la mediazione.  Con l’irrompere della crisi, con il giovedì nero di New York,  tutto ciò repentinamente si modifica. Un passaggio oggettivo che le classi dominanti colgono solo in parte mentre, e non potrebbe essere altrimenti, solo dentro quel cervello collettivo che è l’Internazionale comunista le conseguenze del giovedì nero sono osservate nel loro reale portato e la guerra inizia a essere osservata come lo sbocco obbligato attraverso cui risolvere la crisi. Per quanto “inconsciamente”,  da quel momento in poi, la guerra, nella sua dimensione generalizzata e generalizzante, comincia essere messa in forma. Ogni blocco imperialista, con maggiore o minore coscienza del reale portato della posta in palio, inizia a essere fatalmente attratto da ciò che, dentro il modo di produzione capitalista, finisce con l’assumere le vesti del destino. Ogni gruppo imperialista inizia a costruire e mettere in circolo le retoriche che dovranno fare da sfondo al conflitto. Tutti, con forme e modalità diverse, iniziano a elaborare la sintassi necessaria in grado di rispondere alla domanda fatidica e retorica al contempo: Volere o non volere il proprio destino?

La crisi tedesca e l’avvento del nazismo danno a tutto ciò una accelerazione non secondaria. Ma questo è chiaro, almeno per il pensiero politico delle borghesie imperialiste, soltanto una volta che i giochi sono fatti. Ossia dopo. Chiunque vada a rileggere le cronache dell’epoca noterà come, da gran parte delle borghesie imperialiste, l’avvento del nazismo è salutato con non poca benevolenza. La vittoria di Hitler è assunta come rafforzamento del blocco controrivoluzionario internazionale e come minaccia non effimera verso il Paese dei Soviet. Le principali forze imperialiste europee accoglieranno l’avvento del nazismo come occasione non secondaria per isolare ancora una volta, sul piano internazionale, l’Unione Sovietica, riprendendo così quel progetto di accerchiamento che, in gran parte delle classi dirigenti europee, non era mai venuto meno fin dai primi mesi del 1918. Per gran parte delle borghesie imperialiste, Hitler e il nazismo, sono coloro i quali potrebbero riuscire là dove i tre anni di guerra civile (1918 – 1921) fomentata, armata, finanziata e appoggiata anche militarmente dalle forze imperialiste ha dovuto segnare il passo. Mentre l’Internazionale comunista individuerà e denuncerà subito il nazismo come il soggetto belligerante per eccellenza, operandosi attivamente per una sua rapida rimozione, le varie borghesie imperialiste, nel nazismo, non individueranno il pericolo di guerra ma, con non poca miopia, un solido bastione contro lo spettro proletario e il bolscevismo.

Tutto ciò porterà a Monaco, con tutte le ricadute del caso. Anche questo, però, diventerà evidente soltanto dopo. Lo stesso attacco alla Polonia, nell’immediato, non sembra far precipitare più di tanto la situazione. L’inizio del Secondo conflitto mondiale si consuma in sordina. È la “strana guerra” ossia una condizione in cui guerra e pace si sovrappongono in continuazione e le speranze di una ricomposizione diplomatica non sono del tutto sopite. Alla prova della storia tutto ciò si è rilevato ancor meno di una pia illusione. Varsavia non è stata il semplice continuum della fase politica precedente bensì il suo punto di rottura. Ogni accomodamento si è dimostrato impossibile. A circa dieci anni dal giovedì nero la fuoriuscita dalla crisi avviene nell’unico modo pensabile e possibile per il modo di produzione capitalista: la distruzione di immani quantitativi di capitale costante e capitale variabile e da qui, per i blocchi vincitori, la possibilità concreta di dare l’avvio a un nuovo ciclo di espansione con i lauti profitti che questo si porta appresso. Ma non solo. La guerra e il suo esito comporta una ridefinizione delle gerarchie internazionali. Dopo la guerra nulla sarà come prima. L’egemonia che gli USA hanno potuto vantare per circa un sessantennio sul piano internazionale sono esattamente l’effetto dei rapporti di forza stabilitisi nel corso del conflitto. La guerra, quindi, come vero e proprio momento di eccezione in grado di ridefinire completamente ordini e gerarchie internazionali. Certo, la guerra continua ad esistere anche nei periodi di relativa stabilizzazione, la guerra continua a essere presente anche dentro la pace ma, almeno questa è la lezione storica che ci sembra sensato cogliere, solo dentro la crisi profonda e generale del modo di produzione capitalista questa, da articolazione tattica delle politiche imperialiste, si trasforma, almeno sul piano dell’oggettività, in progetto strategico.

Nello stesso decennio 1929 – 1939 il numero di conflitti si era dilatato a dismisura tanto che, prima della deflagrazione definitiva, gli individui coinvolti direttamente in situazioni di guerra ammontava al non irrisorio numero di 500 milioni. Tuttavia, nonostante ciò, il punto di non ritorno non sembrava ancora essersi consumato. Per anni, il mondo, aveva continuato a rimanere in bilico. È soltanto dopo, nel 1937, quando la crisi conosce una nuova acutizzazione internazionale e la “depressione” si accinge a diventare lo stile di vita abituale dei paesi capitalistici, che la tendenza alla guerra, nella sua forma generalizzata, inizia a prendere forma. Il suo precipitare è esattamente l’effetto della non risolvibilità per altre vie della crisi. Vi è quindi un nesso inscindibile tra crisi e guerra e da tale costrizione è impossibile emanciparsi.

Detto ciò torniamo alla Siria. Possiamo considerarla alla stessa stregua della Polonia nel ’39? Rispondere a questo quesito significa, almeno sul piano dell’analisi e della progettualità politica, iniziare a indirizzare e a orientare in maniera non generica il movimento comunista internazionale. Rispondere a questa domanda significa appropriarsi della sola bussola in grado di contrapporre alle politiche imperialiste una coerente azione di classe. Ora, poiché gli eventi storici sono sempre il frutto di una condizione oggettiva bisogna chiedersi a che punto sia la crisi. Pare abbastanza evidente come il suo aggravarsi sia una costante che nessuno è più in grado di esorcizzare. Gli stessi organi del capitalismo internazionale, coloro che dovrebbero rappresentarne il “cervello strategico” e, in virtù di ciò, elaborare le soluzioni maggiormente idonee, efficaci ed efficienti al suo dominio, non sono in grado di fornire uno straccio di ipotesi. Lo stesso FMI ipotizza, anche se più come profezia che come risultato di un’elaborazione vagamente oggettiva e scientifica, una possibile ripresa intorno al 2015 mentre, dalla “locomotiva tedesca”, i tempi di fuoriuscita sono posticipati intorno al 2017/18. Ciò significa che, lo stesso “cervello del capitale”, riconosce che per un periodo di tempo abbastanza lungo la crisi continuerà a farla da padrona. Dietro tale asserzione, però, vi è qualcosa di molto più prosaico: il fatto banale e comico al contempo che sancisce l’impossibilità per la borghesia imperialista di comprendere il guaio in cui è precipitata. Alla prova dei fatti, le intelligenze e gli organismi internazionali del capitale, siano questi Langarde, Merkel, Monti oppure il FMI, la BCE o la Federal Reserve, non sembrano essere di statura intellettuale e cognitiva di molto superiori al giullaresco ministro Brunetta il quale, spararle per sparale (tempo sei mesi e la crisi è finita), se non altro puntava sul “gratta e vinci” dei tempi brevi. Allo stesso modo, le intelligenze del capitale, non sembrano in grado di analizzare la crisi se non attraverso un empirismo il quale, tradotto in soldoni, si riduce a cogliere la complessità della realtà attraverso l’osservazione di qualche dato momentaneo e periferico. In fondo, sotto il profilo metodologico, non si distanziano di molto da Berlusconi il quale, in quanto a empirismo spicciolo, non è stato secondo a nessuno tanto che, dall’osservazione di un qualche ristorante pieno di commensali, deduceva che la crisi o non c’era o era già finita.  Se mettessimo in fila la serie infinita di gaffe consumate dagli “uomini di scienza” dell’imperialismo intorno alla crisi saliremmo al cielo senza alcuna fatica. Detto ciò dobbiamo domandarci: tutto questo è il frutto di una classe dirigente particolarmente ottusa oppure, come in alcune circostanze si sente raccontare, la crisi è il frutto puro e semplice della malvagità dei padroni i quali costruiscono la crisi appositamente per fregare gli operai e i proletari mentre tutto potrebbe procedere tranquillamente? O ancora: la crisi è il frutto dell’agire disonesto di un gruppo di pescecani della finanza i quali, aggirando tutte le regole, hanno fatto precipitare il mondo nel disastro attuale? La crisi, stando così le cose, non sarebbe altro che il semplice frutto di un cattivo capitalismo al quale basterebbe sostituire velocemente  il “buon vecchio e sano” e soprattutto onesto capitalismo?

Dal momento in cui la crisi sistemica e strutturale del modo di produzione capitalista ha fatto capolino all’interno dell’intero sistema mondo la sua causa e origine è stata ricercata tra gli “uomini” e non tra le “cose”. Volta per volta si è cercato di individuare in questo o quel comportamento soggettivo l’origine del e dei mali così come, volta per volta, si è cercato di individuare in una frazione capitalista piuttosto che in un’altra il “cervello” in grado di far uscire il mondo dalle secche del presente. Una ricerca che, a quanto pare, non sembra aver sortito un qualche effetto come, osservando quanto avviene nel Paese simbolo del capitalismo, è facile riconoscere. La colta intellighenzia democratica statunitense, alla prova dei fatti, non si è mostrata di molto superiore al rozzo mondo dei repubblicani. Gli Stati Uniti, non solo sono ben distanti dall’aver risolto la crisi, ma gli effetti di questa si fanno, proprio per loro, sempre più minacciosi e non sarà certo inondando il mercato di liquidità, un pagherò le cui garanzie poggiano solo ed esclusivamente sulla forza delle baionette a stelle e a strisce, che possono sperare di venirne fuori anche perché, sul piano internazionale, la loro egemonia è in pieno tramonto. Per quanto possenti, le loro forze aereo – navali, non sono più in grado di fare il bello e il cattivo tempo su gran parte del mondo. Obiettivamente, a circa cinque anni dall’irrompere della crisi, tutti i ceti politici chiamati al capezzale del malato hanno dovuto convenire che una terapia vera e propria non c’è e che nessuno, al proposito, è in grado di andare oltre la navigazione a vista.

Tutto ciò non deve sorprendere poiché il problema sta nelle “cose” e non negli “uomini”. Il problema sta nella contraddizione oggettiva e irrisolvibile del modo di produzione capitalista. Di ciò, lo stesso personale politico imperialista, in virtù della sua postazione storica oggettivamente limitata e parziale non  può che averne un’idea approssimativa. La borghesia non può che registrare in maniera cosciente i processi materiali  post festum mentre, nel momento in cui si presta ad agire, non ha che idee generiche e spesso confuse su quanto la sua azione soggettiva stia per innescare. Ciò è stato vero in Serbia nel 1914 così come, allo stesso modo, l’attacco alla Polonia era ben lungi dall’essere pensato come prologo al Secondo conflitto mondiale. In apparenza la guerra polacca non sembrava essere troppo diversa da quanto, solo un anno prima, era stata la “questione delle minoranze tedesche” eppure rappresentò esattamente il punto di non ritorno. Allo stesso tempo, il  medesimo militarismo fascista non ipotizzava un conflitto come quello che la “campagna polacca” avrebbe finito con l’ innescare ma, in virtù delle esperienze maturate sino a quel momento, prevedeva che la guerra rimanesse circoscritta alla sua “forma lampo”. La stessa “Operazione Barbarossa” non avrebbe dovuto protrarsi per oltre sei mesi. Da tutto ciò che cosa dobbiamo dedurne se non che, a un certo punto, le dinamiche che portano alla messa in forma del conflitto finiscono del tutto fuori controllo e che, andando al sodo, nei confronti della guerra le forze imperialiste si ritrovano ad agire con la stessa limitatezza strategica mostrata nei confronti della crisi? La relazione tra gestione della crisi e gestione della guerra, non mostra forse il medesimo limite  strategico? In fondo non è pur sempre vero che l’imperialismo precipita nella guerra così come approda inconsapevolmente nella crisi? Non c’è forse una relazione oggettiva tra l’impossibilità del capitalismo di prevenire e governare la crisi e gestire la “forma guerra”?

Detto ciò torniamo alla Siria.  Per certi versi, nei suoi confronti, sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di non dissimile da quanto accaduto nei confronti della Libia la quale è stata neutralizzata, polverizzata e posta sotto tutela in tempi sostanzialmente rapidi. Del resto non avrebbe potuto essere altrimenti. La sproporzione tra le forze militari regolari libiche e l’esercito internazionale che si è posto loro di fronte non lasciava alcun margine di incertezza. Il popolo libico, se vorrà riconquistare un barlume di indipendenza e sovranità, non potrà far altro, come in parte è già in atto, che ricorrere alla guerra partigiana, alla guerra per bande, alla guerriglia tout court. Sotto il profilo strettamente tecnico – militare il rapporto tra il volume di fuoco che la Siria è in grado di mettere in campo e quello internazionale che sembra apprestarsi a dar fuoco alle polveri non è poi così diverso da quello messo in gioco nel “caso Libia”. Eppure, nonostante da un momento all’altro la situazione paia precipitare, nessuno sembra decidersi a compiere l’atto decisivo. Una certa prudenza accompagna tutte le consorterie imperialiste le quali, in Siria, non sembrano volersi impegnare direttamente e in prima persona. Questo nonostante che, il livello di mobilitazione militare delle forze imperialiste, abbia raggiunto un grado quanto mai elevato. Tutti sembrano lavorare affinché, lo sgretolamento della Siria, avvenga attraverso un colpo mancino interno piuttosto che attraverso un’operazione militare dichiarata.

Per questo, nei confronti di quanto sta accadendo in Siria è necessario porsi una domanda: l’intervento dell’imperialismo in Siria rientra, come dire, in una sorta di routine propria della linea di condotta dell’imperialismo o ne rappresenta un momento, al contempo, di rottura e di svolta? Il possibile intervento in Siria può, realisticamente, incarnare il punto di non ritorno della tendenza alla guerra che accompagna l’intero iter della fase  attuale e che, dentro la crisi sistemica a cui è approdato il modo di produzione capitalista, è oggettivamente obbligata a trasformarsi da tendenza “in potenza”  a messa in forma della guerra in maniera concreta e soprattutto generalizzata?

In poche parole, la Siria, non è altro che il semplice continuum della Serbia, dell’Iraq, dell’Afganistan e, in gran parte, della stessa Libia oppure, rispetto a queste, è già qualcosa di diverso? Perché Damasco può trasformarsi nella nuova Varsavia? Perché può essere il punto di non ritorno? Vi sono almeno cinque buoni motivi per pensarlo.

Il primo chiama direttamente in causa la crisi sistemica del modo di produzione capitalista.  Ciò comporta l’acutizzarsi delle frizioni tra i diversi blocchi imperialisti i quali si trovano nella necessità di ridefinire gli equilibri gerarchici nel mondo. Finita l’epoca del bipolarismo e, al contempo, decaduta l’ipotesi a lungo coltivata di un monolitismo statunitense, il mondo si trova in una situazione di precarietà permanente. Un nuovo blocco imperialista, quello europeo, è in via di formazione con tutte le contraddizioni, le incertezze e i conflitti che ciò comporta, mentre i Paesi emergenti, con in testa la Cina, hanno assunto postazioni di forza e di prestigio economiche e militari tali da contendere ampie quote di mercato e di influenza politica e militare alle forze imperialiste impostesi nel secondo dopoguerra. Se, tutto ciò, poteva essere tollerato nel periodo in cui la finanziarizzazione selvaggia dell’economia sembrava in grado di arginare i vizi strutturali del modo di produzione capitalista, ora, nel momento in cui ciò non appare più possibile il conflitto interimperialistico assume nuovamente toni minacciosi e belligeranti.

Il secondo, diretta conseguenza del primo, chiama in causa la necessità delle forze imperialiste di porre fuori gioco almeno alcuni degli attori attualmente presenti sulla scena internazionale. In tutto ciò, la Russia, sembra essere l’obiettivo privilegiato tanto che  l’attacco alla Siria pone nel mirino, non solo l’Iran, ma soprattutto la Russia. Perché?   Per quanto l’argomento meriterebbe una trattazione ben più corposa di quanto queste brevi note sono in grado di tratteggiare, un fatto pare certo: l’imporsi della borghesia nazionalista in Russia, della quale Putin ne rappresenta la sintesi politica e militare, ha scompaginato per intero i piani che, subito dopo il ’91 e l’avvento dell’era Eltsin, potevano essere realisticamente coltivati dalle consorterie imperialiste internazionali. Eltsin e il suo blocco di potere si mostravano quanto mai disposti a svendere per intero il Paese trasformandosi in agenti locali dell’imperialismo internazionale, facendo della Russia un territorio non distante dalla colonia. In questo modo, le consorterie imperialiste, avrebbero raggiunto un duplice obiettivo: liquidare ciò che dello spettro comunista rimaneva in piedi e, al contempo, mettere sotto tutela un territorio il quale, per forza economica e militare, poteva sempre risorgere come contendente sulla scena internazionale. L’affermarsi della frazione borghese nazionalista ha esattamente mandato in frantumi questi piani. La Russia, ventuno anni dopo l’implosione dell’URSS si mostra, sul piano internazionale, come un agguerrito competitore sotto tutti i profili. Dalla sua possibile riduzione in servitù si è giunti al dover riconoscere e accettare che, un altro polo di borghesia, è in grado di contendersi ampi spazi di potere sulla scena internazionale. In questi anni i tentativi di destabilizzazione della Russia, attraverso il finanziamento di “insorgenze etniche”, è stato ampiamente coltivato da alcuni gruppi imperialisti statunitensi e britannici senza però sortire un qualche successo. Così come, l’attacco alla Russia, non ha risparmiato azioni al limite del ridicolo come quelle delle Pussy Riots. Sotto tale profilo, però, la borghesia russa ha mostrato di saper ampiamente reggere botta e se oggi questa deve temere realmente qualcosa,  questo è la possente riorganizzazione delle file comuniste. Per i gruppi imperialisti, in entrambi i casi, non si tratta di uno scenario particolarmente appetibile poiché, il destino della Russia, si prefigura o attraverso una politica saldamente in mano alla borghesia nazionalista o un governo fortemente influenzato dalle forze comuniste. Insomma di male in peggio. Diventa pertanto evidente come, la “partita siriana” con il conseguente accerchiamento della Russia, finisca con il prefigurare scenari immediatamente diversi da quelli che hanno fatto da sfondo a tutte le operazioni belliche precedenti.

Il terzo aspetto, forse il più noto e ovvio, è dato dall’immediata ricaduta che la “campagna di Siria” avrebbe nei confronti dell’Iran. Ma anche in questo caso la questione iraniana ben difficilmente potrebbe essere regionalizzata. Questo per almeno tre buoni motivi: L’Iran è parte non secondaria del “Patto di Shangai”, e questo chiama direttamente in causa Cina e Russia; l’Iran è detentrice di una quantità di petrolio che difficilmente, soprattutto la Cina, può pensare di veder finire tra le mani dei suoi diretti competitori internazionali; l’Iran è il centro e il crocevia di scambi internazionali che hanno sancito definitivamente l’emancipazione dal dollaro. Anche sul piano finanziario, quindi, l’aggressione all’Iran non potrebbe essere circoscritto e ben difficilmente la Cina, in quel caso, continuerebbe nella sua sostanziale politica del non intervento.

Un quarto aspetto è dato dal ruolo che , in tutto ciò, giocano l’Arabia Saudita e le varie petromonarchie del Golfo. Un ruolo spesso un po’ troppo sottovalutato poiché si tende a considerarle sempre come realtà statuali di basso profilo e sostanzialmente allineate e prone ai più classici imperialismi a dominanza occidentale. In realtà, da tempo, le cose sono assai diverse. La dominanza del capitale finanziario all’interno della fase imperialista contemporanea ha fatto sì che il ruolo di questi potentati economici non solo sia diventato sempre più rilevante ma ha dato loro modo di autonomizzarsi ampiamente e di giocare, al tavolo dell’imperialismo, una partita interamente propria. Il ruolo giocato da queste contro i Paesi socialisti e i governi democratici e progressisti, nel recente passato, così come il loro contributo alla rimozione di entità statuali “non allineate”, la Libia su tutte, non è stato di semplice supporto agli interessi degli imperialismi occidentali ma una vera e propria azione politica e militare finalizzata ad acquisire postazioni di forza e di prestigio all’interno della geopolitica internazionale.

Gli “eserciti irregolari” che questi finanziano, addestrano e organizzano fanno parte di un preciso piano imperialista autonomo che, volta per volta, reiterando la consolidata legge del beduino si allea con determinate consorterie imperialiste senza per questo esserne succube. La disponibilità finanziaria della quale obiettivamente godono ha fatto sì che, un po’ paradossalmente, il loro “processo di decolonizzazione” si sia realmente compiuto tanto da diventare, a tutti gli effetti, una temibile forza fascista e imperialista la quale, tra l’altro, può vantare la non secondaria arma dell’identitarismo religioso. La loro presenza in Siria è quanto mai significativa così come, per nulla trascurabili, sono gli “intrecci informali” che, a partire dalla “comunanza religiosa”, sono in grado di tessere con le più diverse realtà. Non diversamente dal nazifascismo, queste consorterie imperialiste, sono in grado, in non pochi casi, di ammantarsi di un velo “populista” in grado di catturare anche il consenso di non secondarie masse popolari. Per queste forze, la “partita siriana”, assume un ruolo strategico fondamentale poiché, conquistare la Siria, consentirebbe loro di porsi seriamente come forza egemone in un’area del mondo strategicamente, sotto il profilo economico e militare, fondamentale.

Infine, ma non per ultimo, la guerra in Siria può realisticamente far saltare per intero tutto il precario equilibrio presente in Medio Oriente e nel Nord Africa.  La partita che vi sta giocando la Turchia la quale, aspetto che non va sicuramente ignorato, è un paese NATO è indicativa dell’insieme di interessi che sulla Siria sono in gioco. All’interno di questo scenario, già di per sé complesso e complicato, si aggiungono l’insieme delle partite “locali” giocate dalle varie formazioni irregolari.

Evidentemente l’atteggiamento cauto e attendista mostrato fin qui dalle potenze imperialiste direttamente interessate all’ingerenza negli affari siriani e alla caduta del governo siriano (U.S.A insieme al suo principale partner Israele; l’Unione Europea con in testa  Francia e l’Inghilterra; le Petromonarchie del Golfo, Arabia Saudita e Quatar;  non ultima, la  meno potente ma geograficamente più coinvolta Turchia)  dimostra la complessità della situazione geopolitica odierna, insieme alla novità e alla gravità dello scontro imposto dall’attuale fase imperialista. Dietro questo atteggiamento va, però, letta anche la speranza, trasformata in tattica, per cui il crollo del governo siriano e la conseguente balcanizzazione della Siria possa avvenire ad opera di forze disgregatrici operanti all’interno dell’area mediorientale, senza l’intervento militare diretto degli imperialismi. Teoricamente, tale prospettiva  non sembra priva di fondamento oggettivo né di possibilità di realizzazione. La Siria si trova al centro della “polveriera” mediorientale e a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale ha costituito un baluardo per il mantenimento degli equilibri all’interno di un’area geografica attraversata senza sosta da conflitti interimperialistici per il conseguimento dell’egemonia sullo spazio che rappresenta il centro nevralgico per l’accaparramento delle risorse energetiche mondiali. Non sembra, pertanto, insensato un piano siffatto che prevede il lavoro silenzioso delle intelligences governative imperialiste, il finanziamento di gruppi e gruppuscoli armati, la guerra mediatica condotta dalle potenti agenzie d’informazioni controllate dalle potenze imperialiste sopramenzionate, le tensioni create ad arte dalle diplomazie.

Senza entrare nei particolari degli episodi che hanno costellato questo anno e mezzo di conflitto intestino in Siria, basta ripercorrere l’evoluzione generale degli eventi per individuare la dinamica sostanziale  e le poste in gioco in quella che in Occidente viene propagandata come una guerra civile mentre a uno sguardo più oggettivo appare molto più vicina a una guerra “per procura”. Le manifestazioni di protesta contro il governo di Assad iniziate in Siria nel marzo del 2011, poco dopo le altre rivolte verificatesi in Egitto e Tunisia, trascorso un periodo abbastanza breve si sono trasformate in guerra civile. Alla repressione governativa delle manifestazioni di piazza, è seguita una veloce organizzazione di un esercito da parte delle forze ribelli, il ESL (Esercito siriano libero) nel luglio 2011 e il mese successivo del CNS (Comitato nazionale siriano)  con sede in Turchia, riconosciuto e sostenuto da tutte le potenze imperialiste interessate alla caduta del regime di Assad. Nel CNS determinante è la componente rappresentata dai Fratelli Mussulmani, il volto ormai presentabile dell’Islam politico, formalmente sostenuti da Arabia e Qatar e  di recente visti di buon occhio anche dall’amministrazione statunitense, come testimonia il  famoso discorso di Obama al Cairo in cui l’apertura formale e informale nei confronti dell’Islam della Fratellanza è stata innegabile (non a caso l’allora presidente egiziano Mubarak non sembrò gradire troppo l’intervento del neopresidente americano; non a caso la visita di Obama in Egitto seguì la sosta in Arabia Saudita presso il re saudita Abdullah).

Dunque, in un primo momento, l’evolversi della situazione in Siria  poteva far credere che gli eventi avrebbero seguito il corso di quelli egiziani. Molto velocemente però le cose si sono dimostrate ben diverse. Per posizione strategica e per il ruolo svolto negli affari mediorientali, non era possibile che si verificasse in Siria un passaggio simile a quello avvenuto in Egitto, dove una rivolta di massa con obiettivi di democratizzazione radicale è stata imbrigliata e addomesticata nel passaggio di consegne, preparato lungamente dalle intelligences imperialiste tra il governo di Mubarak e quello dei Fratelli Mussulmani. In Siria, sin dall’inizio i numeri di piazza sono stati ben più ridotti di quelli egiziani, così come il ruolo assunto dall’esercito governativo nella rivolta. Mentre in Egitto fondamentale è stato il volta faccia dei capi militari che, dopo aver ripudiato Mubarak, hanno gestito in senso autoritario la fase di transizione del potere, in Siria nonostante si sia verificato il passaggio di una parte delle milizie governative nel  ESL, ciò non è avvenuto in forma così consistente da determinare lo schieramento in blocco dell’esercito dalla parte della rivolta contro il governo. I vertici militari in Siria sono rimasti fedeli al governo, così come la maggioranza della popolazione abbastanza velocemente si è ritirata dalla scena pubblica.

Schiacciato e violentato dai combattimenti, il popolo siriano nella sua maggioranza, ha dimostrato di non volersi schierare apertamente nel campo dei ribelli. Bisogna infatti riflettere che se ci fosse stata una partecipazione di massa da parte della popolazione alla guerriglia condotta dai ribelli, come ci insegnano l’esperienze delle resistenze messe in atto dai popoli contro il nazifascismo e quelle di guerriglia  praticate dalle popolazioni colonizzate contro il colonialismo, è facile ipotizzare che l’egemonia sui territori sarebbe stata assunta molto velocemente dall’ESL  e la configurazione del conflitto mutata a sfavore delle forze governative in tempi abbastanza rapidi. Ciò non è avvenuto in Siria. D’altra parte la Siria – per fare un altro confronto con quanto in maniera non appropriata è stato sintetizzato sotto la comune etichetta delle “Primavere arabe” – non è la Tunisia. Se ci domandiamo cosa stia determinando la tenuta del regime di Assad, certamente non proprio amato da larga parte del popolo siriano, e lo stallo cui è giunto il conflitto siriano, nonostante l’aiuto militare, il finanziamento economico, il tifo mediatico e l’appoggio istituzionale dato da parte di gran parte delle potenze imperialiste ai ribelli, probabilmente la risposta va cercata da un lato nel ruolo che la Siria governata dal partito Baath ha avuto nell’area mediorientale negli ultimi sessant’anni, dall’altro nella natura e nella composizione delle forze ribelli.

Baath è al potere in Siria dal 1963, la sua ideologia, pur con vistose modifiche nel corso di questi lunghi 49 anni, può essere definita come un insieme di panarabismo, nazionalismo, principi di stampo socialista assolutamente estranei al marxismo. Baath ha favorito il configurarsi della Siria come stato laico, multietnico e multi confessionale. Nel corso degli anni ’70, con la presa di potere di Hafiz al-Assad, il governo siriano ha puntato sull’ammodernamento e  sull’industrializzazione del paese, usufruendo di cospicui aiuti da parte dell’Unione Sovietica. Dopo l’ ‘89, ovviamente, le cose si sono modificate, con la graduale apertura nei confronti delle potenze occidentali e un processo di progressiva privatizzazione di alcuni settori, primo fra tutti quello finanziario e bancario. In ogni caso, il sistema statalista siriano è rimasto in piedi: in Siria l’istruzione e l’assistenza sanitaria sono tuttora gratuite e moderne, i prezzi sono controllati dallo stato, i prodotti di base sono sovvenzionati, regge la pianificazione economica e lo Stato dirige il commercio estero. Il settore pubblico contribuisce per il 30% del PIL e impiega il 42, 5% della forza lavoro.

L’elemento di continuità della politica di Baath in Siria va sicuramente ricercato nel nazionalismo autoritario e nell’aspirazione panarabista. La politica siriana nell’area mediorientale di questi ultimi 60 anni ha come denominatore comune il mantenimento dell’indipendenza e dell’autonomia della Siria contro le ingerenze degli imperialismi, primo tra tutti il sionismo,  e il sostegno e la ricerca dell’egemonia sui movimenti di resistenza come quello palestinese o libanese. Su tali obiettivi  si fonda l’alleanza in funzione antisionista stretta recentemente con l’Iran e con Hezbollah nell’Asse della Resistenza. Il governo siriano appare dunque espressione della classe borghese nazionale, multiconfessionale ( composta da alauiti, con posizioni preminente vista l’appartenenza degli Assad alla setta, cristiani, drusi, sunniti e sciti), legata al potere da una lunga tradizione e attenta al mantenimento dell’autonomia politica siriana. Nelle politiche di governo si fondono politiche nazionalistiche di stampo autoritario, fondate sul principio del dividi et impera, con un populismo condito da misure di stampo socialisticheggiante. Questa formula politica diventa evidente se si considera la politica siriana nei confronti del vicino Libano verso cui la Siria, da sempre, ha vantato pretese egemoniche,  senza ripudiare mai il suo impegno a favore della resistenza libanese contro le ingerenze dell’imperialismo sionista e occidentale. Sui nuovi rapporti di forza instauratosi con l’affermazione di Hezbollah in Libano, è nata una collaborazione tra quest’ultimo e il governo siriano su un piano di maggior parità e collaborazione politica rispetto al passato, che ha permesso la vittoria di Hezbollah contro Israele nel conflitto del 2006.

Se invece proviamo a ricostruire le forze che compongono il fronte della ribellione in Siria, dobbiamo constatare che tale cartello è assai confuso e di difficile definizione. Tra le fila degli oppositori al regime troviamo  i Fratelli Musulmani,  i gruppi di  intellettuali e di oligarchia finanziaria, legata agli interessi colonialisti, residenti principalmente in Francia ed Inghilterra ma anche tutta la galassia frastagliata e oscura che compone l’Islam politico combattente. Non è un mistero per nessuno, in quanto confermato unanimemente dalle agenzie informative, dagli osservatori delle Nazioni Unite, dalle stesse cancellerie occidentali, che a combattere tra le file dei ribelli in Siria siano corsi tanto i miliziani di Al-Qaeda, quanto i gruppi fondamentalisti salafiti provenienti dal Nord Africa. Molteplici sono  le organizzazioni armate che operano in Siria tra le file dei ribelli. Armate e finanziate oltre che dall’oligarchia fondamentalista wahabita saudita, dai “democratici” governi degli Stati Uniti, di Francia e Inghilterra. Per quanto riguarda la partecipazione di gruppi appartenenti al fondamentalismo islamico all’interno del ESL, essa non può essere ascritta sotto la categoria dell’ “incidente di percorso”, bensì  più verosimilmente sembra far parte della tattica adottata dalle potenze imperialiste interessate alla destabilizzazione della Siria (da questo punto di vista il conflitto afgano del ’79 insegna molto).

Sotto questo profilo, emblematico è il caso dell’OMPI, (Organizzazione dei Moudjahidines del  Popolo Iraniano), organizzazione terroristica iraniana di ispirazione islamico – liberal – socialista,  nata nel ’79 per combattere e rovesciare la monarchia dello Scià Palawi e poi oppostasi anche al governo di Komeini, dichiarata illegale in Iran e da allora in esilio in Iraq e in Francia. L’OMPI, inscritta tra le organizzazioni terroristiche da Stati Uniti e dalla maggior parte dell’Unione Europea, nell’autunno di quest’anno è stata cancellata dalla lista nera del terrorismo. Nel corso dell’occupazione americana dell’Iraq, l’esercito statunitense ha occupato militarmente il campo di Achram dove risiedeva il nucleo più consistente dell’organizzazione e da quel momento i rapporti tra l’OMPI e gli Statunitensi si sono fatti sempre più distesi, tanto da non poter affatto essere  escluso un reclutamento dei militanti dell’OMPI da parte dei servizi americani in funzione antiraniana.  In ogni caso, il dato è che “lo sdoganamento” ufficiale dell’OMPI è avvenuto immediatamente prima che la sua dirigenza  offrisse la partecipazione delle sue frange armate al conflitto siriano tra le file dell’ESL. Si tratta di un caso emblematico utile per inquadrare il fenomeno d’infiltrazione da parte della galassia magmatica del fondamentalismo islamico di diversa natura e provenienza tra le file dei ribelli. Infiltrazione incoraggiata dalle potenze imperialiste,  gestita e avallata dal comando del ESL.

Questa breve disamina della composizione e della natura delle forze implicate nella guerra intestina siriana sembra spiegare sufficientemente sia la posizione assunta dalla maggior parte della popolazione siriana, in particolare dalle classi subalterne, sia le divisioni che stanno intervenendo nei vari movimenti di resistenza antimperialisti i cui interessi vengono tirati in ballo dal conflitto siriano.

Le classi subalterne in Siria oscillano tra il terrore, la neutralità e l’appoggio al governo di Assad come sembra confermare il dato delle ultime elezioni. Infatti le elezioni legislative tenutesi nel maggio scorso, dopo che il governo aveva modificato l’articolo 8 della costituzione che sanciva Baath come unico partito, hanno visto la vittoria schiacciante di Baath (60%) in tutte le province siriane con un’affluenza di poco più del 51% dei votanti. Il Partito comunista siriano si è schierato apertamente contro l’ESL e il CNS, a favore della difesa del governo e della sovranità nazionale. D’altra parte non è difficile capire come l’opzione politica rappresentata dai ribelli sia ben presto  risultata assolutamente temibile, priva di prospettive e anzi  abbia lasciato intravedere un futuro di oppressione e oscurantismo alla maggior parte delle masse siriane. Se osserviamo, invece, quanto avviene nei campi profughi palestinesi in Siria, notiamo come le forze politiche palestinesi siano divise tra il neutralismo dei seguaci di Fatah e Hamas, la condanna del FPLP alle ingerenze imperialiste nel conflitto e l’aperto sostegno al regime di Assad da parte del FPLP – Comando Generale,  partito marxista leninista palestinese staccatosi da il FPLP e da sempre legato strettamente al governo siriano. Per quanto riguarda le forze curde (i curdi rappresentano il 40% della popolazione nel nord –est della Siria), ugualmente si è verificata una divisione tra il Pyd, (Partito dell’Unione democratica) legato al PKK che pur mantenendo una posizione non belligerante, si è dichiarato nettamente contrario all’operato del ESL, e il filooccidentale CNC (Consiglio nazionale Curdo) apertamente a favore dei ribelli. Analoga situazione, ovviamente più scontata, in Libano dove la coalizione di  governo (“8 Marzo”) guidata da Miqati , di cui il partito maggioritario è Hezbollah, è schierata dalla parte di Assad, mentre l’opposizione riunita sotto il cartello del 14 marzo (Falange, Mustaqbal, Forze Libanesi) è filo ribelle.

Osservando lo scenario appena descritto, non sembrano banali contingenze  la rinnovata aggressività mostrata da Israele contro i palestinesi della Striscia (nel 2012 i bombardamenti su Gaza si sono ripetuti a cadenza regolare, gli ultimi a metà ottobre), le continue incursioni aeree  e le violazioni da parte di droni compiute dall’esercito sionista in territorio libanese, nonché l’ondata offensiva lanciata negli ultimi mesi dalla Turchia contro i Curdi. Piuttosto questi elementi vanno a confermare la centralità posseduta dalla partita siriana per tutta l’aria mediorientale e per le forze politiche che vi hanno interessi in gioco. Il dato che pare emergere da questa analisi è come intorno alla questione siriana i campi di amicizia e inimicizia si vadano delineando in maniera netta e appaiano alcune sostanziali indicazioni “di classe”. Affermazione che merita d’essere approfondita, andanfo in netta controtendenza rispetto all’opinione comune secondo cui lo scenario aperto dal conflitto siriano apparirebbe indecifrabile e confuso, preda di forze mostruose e indominabili, impossibile quindi da affrontare utilizzando la lente del “politico”.

Al contrario, analizzando secondo la  prospettiva dialettica offerta dal materialismo storico i dati storico-politici raccolti, ciò che  ci è sembrato delinearsi è la contrapposizione tra il campo delle potenze imperialiste – tra loro inevitabilmente divise per obiettivi, interessi e progetti ma momentaneamente unite dalla comune volontà di vedere cadere il baluardo, oggettivamente, antimperialista rappresentato dalla Siria e di destabilizzare l’area mediorientale in vista dell’instaurazione di “un nuovo ordine” – e un fronte di resistenza a tale volontà di potenza, fronte anch’esso variegato, diviso e contraddittorio al suo interno. Gli interessi degli imperialismi riuniti nella precaria alleanza “anti Assad” per ora convergono ma è facile immaginare come, se l’obiettivo della destabilizzazione siriana venisse raggiunto, allora verrebbero a scontrarsi tra loro e si accenderebbe il conflitto interimperialistico con un’intensità di portata difficile da quantificare. Anche perché entrerebbero forzatamente in gioco anche la Cina e la Russia le cui esigenze imperialistiche sono nettamente conflittuali rispetto al cartello “Arabo-Atlantico”. Ugualmente, in quello che abbiamo chiamato fronte della resistenza antimperialista esistono enormi contraddizioni che, finita la guerra, non potrebbero che esplodere in tutta la loro intensità. D’altro canto, rispetto ai progetti neo-coloniali e fascisti coltivati dagli imperialismi del Golfo e della Nato,  gli interessi delle classi subalterne e le forze politiche che li sostengono non possano che stare dalla parte del fronte che vi si oppone. Infatti, mentre nel caso di vittoria della volontà imperialista,  anche solo istintivamente le classi subalterne intuiscono l’orizzonte di barbarie che si dischiuderebbe, nella resistenza alle mire neo – coloniali degli imperialismi restano obiettivamente aperti ampi margini di manovra per le forze che lavorano per il riscatto degli sfruttati  e degli oppressi.

Quanto, pur in maniera estremamente sintetica si è descritto, sembrerebbe confermare come la “questione Siria” si ponga su un piano già qualitativamente diverso rispetto ai non certo trascurabili conflitti ai quali, l’imperialismo dell’era globale, ci ha abituati. Il carattere immediatamente internazionale della “crisi siriana” fa sì che per tutte le forze e le potenze mondiali la partita siriana sia qualcosa che le investe in prima persona. Ciò sarebbe, pur in un contesto di relativa stabilizzazione del capitalismo, un motivo di allarme non secondario ma, all’interno di una crisi strutturale e sistemica della quale non si vedono soluzioni all’orizzonte, la possibilità che la “crisi siriana” diventi il punto di non ritorno e che, in virtù di ciò, la presa di Damasco si trasformi nella nuova Varsavia è qualcosa che va considerata con non poca serietà. Tutto questo, non necessariamente, dovrebbe declinare verso uno scenario catastrofistico (la distruzione del pianeta attraverso l’utilizzo dispiegato e sconsiderato di tutto il potenziale bellico strategico in possesso delle varie potenze internazionali) ma potrebbe, invece, dar vita a un conflitto entro cui l’uso della forza non vada oltre una certa soglia.

Va infatti tenuto a mente come, le varie forze militari, stiano da tempo rafforzando soprattutto quelle tipologie di armi e di tecnologie di carattere, per così dire, maggiormente convenzionali. Un potenziamento che ben poco senso avrebbe se l’unica forma guerra ipotizzata dall’imperialismo fosse soltanto “la guerra tra la gente”, maggiormente praticata in questi ultimi anni oppure quella atta a rimuovere la forza militare di modesti stati riottosi. Un armamentario simile, e il suo continuo implemento, si mostrerebbe del tutto sproporzionato se, come suo unico obiettivo, avesse lo scontro con eserciti della forza di quello serbo, iracheno o libico. La “potenza di fuoco” di tipo convenzionale che gli eserciti continuano ad ammassare sembrerebbe suggerire che tale potenza miri a essere utilizzata in scenari di ben altra portata. Allo stesso tempo l’esistenza di sodalizi militari, come per esempio il “Patto di Shangai”, ben difficilmente possono essere considerati come il necessario balocco di cui ogni dirigenza militare non può fare a meno. In altre parole, la preparazione alla guerra, è molto di più che la semplice routine alla quale, per dovere, i vari Stati Maggiori sono obbligati a sottoporsi al semplice fine di poter giustificare la loro esistenza. Del resto, ed è sotto agli occhi di tutti, le strategie che gli imperialismi, dentro la crisi, stanno adottando non si discostano di molto da ciò che, il canovaccio classico della fase imperialista, ci ha abbondantemente reso noto. Rafforzamento dei trust e dei cartelli, protezionismo, guerra monetaria, consolidamento e rafforzamento militare nelle aree già poste sotto influenza, conquista di nuovi territori strategici come basi avanzate di un ipotetico, ma non accademico, conflitto. Questi passaggi, oggi, li vediamo, in una sorta di remake tridimensionale, ripetersi puntualmente uno dopo l’altro. Forse non siamo in grado di dire A che punto è la notte ma, con una qualche certezza ci sembra di poter sostenere che il punto di non ritorno sia non troppo distante.

Al termine di questo sommario e sicuramente limitato e incompleto sforzo analitico occorre domandarsi come mai, in gran parte della sinistra e dei suoi mondi, tutto ciò sia bellamente ignorato. Per quale motivo, andando al sodo, la “questione guerra” insieme alla “questione imperialismo” e a tutto ciò che si portano appresso siano osservate come qualcosa le quali, nella migliore delle ipotesi, possono essere oggetto di interesse unicamente  da parte di quelle ristrette ed eterne cerchie dell’erudizione inutile i cui tratti improbabili e bislacchi sono noti ai più. Come mai, pur essendo a bordo del Titanic, si continui a danzare come se nulla fosse. Rispondere a questa domanda comporterebbe una disamina, la cui trattazione, esula dagli scopi di questo breve scritto ma che, in  tempi brevi, dovrà pur essere affrontata. Ciò che, però, sin da subito appare urgente è spingere per unificare il lavoro di tutte le avanguardie e le forze comuniste intorno alla “questione guerra”. Ciò che appare improrogabile è l’assunzione, da parte di tutte le forze comuniste, della “questione guerra e imperialismo” come tema centrale all’interno del grigio lavoro quotidiano.

Giulia Bausano, Emilio Quadrelli

fonte: palestinarossa.it

http://www.palestinarossa.it/?q=it%2Fcontent%2Fstory%2Fsiria-crisi-guerra-che-punto-%C3%A8-la-notte

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